Negli ultimi anni il mondo industriale ha vissuto trasformazioni profonde, accelerate da crisi sanitarie, conflitti regionali e tensioni commerciali. Questi eventi hanno messo in luce la fragilità di catene di approvvigionamento troppo lunghe, concentrate e interdipendenti. Il nodo centrale riguarda l’eccessiva dipendenza da una singola macro-area asiatica, che negli ultimi decenni ha garantito costi bassi e capacità produttiva sterminata, ma che oggi espone economie e imprese a rischi crescenti.
Il modello che ha dominato l’era della globalizzazione, concentrazione geografica e riduzione dei costi non è più sostenibile. Le aziende sono chiamate a ripensare la propria strategia: non basta più puntare soltanto sull’efficienza, occorre costruire catene di fornitura più robuste, capaci di adattarsi ai cambiamenti e di reggere meglio gli shock esterni, integrando al tempo stesso criteri di sostenibilità.
I rischi legati a questa dipendenza sono molteplici e interconnessi. Innanzitutto, il fattore geopolitico: i cambiamenti improvvisi negli equilibri internazionali possono compromettere l’accesso a materie prime e componenti essenziali, lasciando interi settori industriali in difficoltà.
A ciò si aggiunge la fragilità logistica: i colli di bottiglia nei porti e la vulnerabilità delle principali rotte commerciali rendono precaria la regolarità dei flussi di approvvigionamento.
Un ulteriore elemento critico è la variabilità normativa. Le restrizioni improvvise o nuove misure protezionistiche possono alterare le condizioni di accesso ai mercati, rendendo incerto il quadro di riferimento per le imprese.
Non meno rilevanti sono le possibili interruzioni produttive dovute a crisi sanitarie, disastri ambientali o instabilità interne, capaci di paralizzare per settimane intere regioni manifatturiere. Infine cresce il rischio legato alla reputazione e ai criteri Esg (ambiente, sociale e governance): in un contesto in cui sostenibilità e diritti umani sono sempre più centrali, affidarsi a catene di fornitura opache e squilibrate diventa non solo rischioso ma anche potenzialmente dannoso per l’immagine delle aziende.
Alla perdita di capacità produttiva e di ordini si aggiunge un altro rischio: la progressiva scomparsa dei centri di sviluppo locali, con la chiusura di aziende storiche e la possibile acquisizione o sparizione dei partner che sviluppano componenti e prodotti, riducendo ulteriormente la leadership competitiva del nostro Paese.
A tutto ciò si somma il problema in molte aziende della precarietà contrattuale. Spesso il passaggio dai contratti a tempo indeterminato a forme come co.co.co. e contratti a termine genera vulnerabilità e incertezza, soprattutto per i giovani che oggi “non hanno una sicurezza nel lavoro”. Una precarietà che pesa anche sull’accesso al credito: con contratti temporanei è difficile ottenere un prestito o rateizzare acquisti, in un contesto in cui perfino l’acquisto di un’auto richiede ormai la rateizzazione. Questa persistente precarietà non solo mina la stabilità sociale, ma riduce i consumi interni, aggravando la crisi economica complessiva.
Questa non è solo una vulnerabilità ma anche un’opportunità: le imprese hanno oggi la possibilità di ridisegnare le proprie catene del valore, puntando su forniture distribuite e su tecnologie digitali di gestione del rischio.
Eppure, mentre Cina e India pianificano con lungimiranza il rafforzamento della propria centralità industriale attraverso strategie che hanno il respiro di veri e propri piani Marshall, l’Italia e l’Europa sembrano prive di una visione altrettanto ambiziosa. L’assenza di un progetto organico e di strumenti di politica industriale coordinati rischia di lasciare il nostro continente in posizione marginale, costretto a rincorrere senza mai guidare.
La sfida dell’industria contemporanea infatti non è più soltanto abbattere i costi ma costruire reti di fornitura capaci di resistere alle turbolenze del presente e di adattarsi alle evoluzioni future, rendendo allo stesso tempo stabile l’occupazione. Per farlo servono decisioni coraggiose e strategie comuni: senza un vero piano europeo per l’industria, la distanza con i giganti asiatici rischia di diventare incolmabile.