Il terzo incontro del cosiddetto “dialogo strategico” tra la presidente della Commissione europea e i rappresentanti dell’industria automotive si è concluso ancora una volta in un nulla di fatto: tante parole, nessuna soluzione concreta. Restano irrisolte le criticità legate alla transizione, con effetti occupazionali e industriali devastanti che richiedono risposte precise e immediate.
Il settore automotive europeo, e quello italiano in particolare, vive una fase di grande difficoltà. La transizione ecologica è stata imposta con tempi e modalità che rischiano di compromettere la tenuta delle imprese, la competitività internazionale e, soprattutto, la stabilità occupazionale di centinaia di migliaia di lavoratori.
In Europa le decisioni arrivano lente, complicate, spesso scollegate dalla realtà industriale. Negli Stati Uniti, in Cina e in India le scelte si prendono in poche settimane e vengono rese operative subito. Questo squilibrio rischia di trasformarsi in un divario competitivo insostenibile, con conseguenze gravi per Paesi, imprese e lavoratori.
Le contraddizioni europee
Il primo nodo riguarda la scadenza del 2035, che vieta la vendita delle auto endotermiche: una data fissata più come atto simbolico che come risultato di un percorso realistico, senza considerare lo stato delle infrastrutture di ricarica, la disponibilità di batterie e materie prime o i costi energetici.
Un altro problema riguarda gli incentivi. In Italia, come altrove, vengono annunciati mesi prima della loro entrata in vigore: il mercato si blocca, le vendite crollano e la produzione rallenta. In altri continenti, invece, gli aiuti diventano operativi subito e i risultati si vedono immediatamente.
C’è poi la questione delle regole: l’Europa impone standard molto severi in materia di emissioni e sicurezza ma non offre sostegni proporzionati a imprese e lavoratori. In questo modo apre la porta a competitor esteri che, con vincoli più leggeri e processi decisionali rapidi, conquistano fette di mercato.
Infine, resta irrisolto il tema della dipendenza dall’estero: batterie, semiconduttori e materie prime arrivano quasi interamente da Asia e Nord America. Senza una politica industriale europea forte, rapida e coordinata, la transizione sposterà lavoro e valore aggiunto fuori dai nostri confini.
Perché serve neutralità tecnologica
Uno degli errori più gravi è stato ridurre la transizione ecologica al solo elettrico a batteria. È una tecnologia chiave, ma non può essere l’unica strada.
La neutralità tecnologica significa valorizzare tutte le soluzioni: ibride plug-in, full hybrid, carburanti sintetici, biocarburanti, idrogeno e persino tecnologie come il Range Extender. Solo un approccio plurale può garantire una riduzione progressiva delle emissioni senza mettere a rischio imprese e occupazione.
Questo approccio porta vantaggi concreti: mantiene attivi gli impianti e i fornitori durante la transizione, risponde alle esigenze dei consumatori che non hanno ancora le condizioni per passare al full electric, e soprattutto preserva il know-how europeo, evitando che competenze costruite in decenni vengano disperse.
Gli effetti sui lavoratori
I segnali sono già evidenti: volumi produttivi in calo, stabilimenti sottoutilizzati, annunci di chiusure e ridimensionamenti. Cresce il ricorso ad ammortizzatori sociali e cassa integrazione, mentre professionalità e competenze storiche sono già andate in parte perdute e minacciano di svanire definitivamente.
Se non si cambia passo, la transizione rischia di trasformarsi da opportunità di crescita a crisi sociale e industriale, con intere filiere e centinaia di migliaia di posti di lavoro messi in discussione.
Come AQCF-R siamo convinti che il settore auto europeo non possa permettersi di rallentare mentre i concorrenti globali accelerano. L’Unione Europea deve abbandonare rigidità ideologiche e scegliere un approccio pragmatico, basato sulla neutralità tecnologica e sui tempi reali dell’industria.
La sostenibilità deve restare l’obiettivo, ma non può diventare una condanna per chi lavora nelle fabbriche o produce componenti. Perché la transizione sia giusta, deve unire riduzione delle emissioni, tutela del lavoro, salvaguardia delle competenze e competitività internazionale.
Per questo chiediamo alle istituzioni europee e nazionali di ascoltare la voce dei lavoratori e delle imprese che ogni giorno tengono in piedi questa filiera strategica. Solo così sarà possibile affrontare il cambiamento senza sacrificare occupazione, professionalità e futuro.